piazzola dei carbonai

La montagna è stata accompagnata per decenni da numerosi aspetti contraddittori. Per anni è stata considerata luogo ricco di insidie e pericoli, come qualcosa da cui tenersi lontani. Si è dovuto attendere a lungo perché la montagna diventasse parte importante del territorio, <<investito da un forte valore estetico>>. Fortunatamente accanto <<all’immagine negativa>>, c’è una visione <<positiva della montagna>>: <<La montagna nella storia delle religioni è un luogo sacro, una meta a cui tendere. Montagne, boschi, grotte, fiumi, acque costituiscono anche i luoghi della devozione popolare della Calabria.  Per i pellegrini calabresi la montagna non è soltanto un centro mitico, ma anche un centro spaziale, economico, culturale[1].>>

Braudel ci ricorda che <<la montagna è un ostacolo, ma nello stesso tempo un rifugio e luogo di libertà e di risorse. In molti luoghi del Mediterraneo, la montagna ha rappresentato luoghi da cui fuggire, in altri invece, è il caso della Calabria, ha rappresentato luoghi dove rifugiarsi. I testi di tradizione orale insistono sulla montagna come una sorta di Eden, luogo di abbondanza e di benessere. Nei canti di tradizione natalizia si narra che, nella notte sacra (ovvero nella notte di natale), dai monti e dalle valli scorre latte e miele[2].>>

Anche nell’utopia di Tommaso Campanella appare <<connessa ai sogni e ai tentativi di fuga dall’oppressore, dalla fame e dalla miseria>>. Non è un caso che la <<città del sole>> sia un’isola <<con una conformazione di una montagna. Muraglie, palazzi, colonne, stanze, piani, porte, scale conducono infine alla sommità del monte>>, dove <<vi è un gran piano ed un gran tempio in mezzo, di stupendo artifizio>>[3]. Ora, l’immagine della montagna come una sorta di paradiso è frutto solo della fantasia e del mito popolare o trova qualche riscontro nella realtà?  La montagna oltre ad essere luogo di forme di cultura popolare, di devozioni e di saperi, non ha costituito anche luogo di culture (economiche e lavorative) che hanno consentito per secoli la vita delle popolazioni?

Si può constatare <<come in epoca moderna ci troviamo di fronte un paesaggio pluralistico, caratterizzato dalle foreste e dai grandi boschi delle alture, agli olivi, agli aranci e ai gelsi dei bassi pendii. Così come siamo in grado di constatare una varietà di piante da frutto, dai pomi ai meli, ai fichi, dai castagni ai prugni che caratterizzavano il territorio delle zone montane e collinari. Le castagne costituivano un alimento spesso fondamentale, molto richiesto, che diventava oggetto di scambio con prodotti che si trovavano giù a valle. A inizio Novecento il pane di castagne è ancora tra i primi posti nel consumo dei pani nei paesi silani, delle Serre e dell’Aspromonte. A partire dal Settecento gli altopiani della montagna diventano luoghi privilegiati delle nuove colture che arrivano dall’America[4].>>

Il mais è tra i cereali il più utilizzato tra le montagne della Calabria. Il pane giallo infatti, detto di ‘ndianu, viene mangiato spesso e anche molto utilizzato tra i contadini, mentre il pane bianco possiamo ritenerlo una prelibatezza solo per alcuni signori, i contadini di certo non mangiavano il pane bianco.

Vengono coltivate anche le patate (qui vorrei fare una precisazione: furono i francesi sotto il periodo napoleonico a costringere i contadini calabresi a coltivare le patate, pianta fino ad allora sconosciuta. Le patate venivano utilizzate inizialmente come pianta ornamentale) <<proprio nelle zone montane della Calabria dove diventeranno elemento tipico e daranno origine a piatti delle cucina “tradizionale”[5].>> (Quando si parla di piatti tradizionali bisogna prestare particolare attenzione. Molte sagre calabresi hanno scopi principalmente lucrativi, per cui si rischia di considerare un prodotto “tipico” quando non lo è mai stato). Le colline interne diventano le zone migliori per la coltivazione e produzioni di legumi e di piante appartenenti alla famiglia delle Solanacee (tipo il peperoncino), che a quanto pare arrivavano dalle Americhe.

Nelle montagne calabresi si riscontrano buone pratiche nella conservazione delle carni suine e nella preparazione degli insaccati. Le ghiande dei boschi hanno avuto rilevante importanza per l’allevamento dei suini. Principalmente le popolazioni avevano un consumo discreto, ma non assolutamente frequente, di carne di capretto e agnello. Inoltre <<Il Pollino, la Sila, le Serre costituivano ambienti climatici favorevoli nella crescita di piante selvatiche, aromatiche e officinali che trovavano largo impiego nella cucina e nella medicina popolare>>. (cfr. Vito Teti, in erbe alimentari in Calabria tra rifugio e nostalgia, in S. Di Bella (a cura di) Utopia e rivoluzione in Calabria. Scritti in onore di Enzo Misefari, Pellegrini editore, Cosenza. p. 270)

In montagna, scrive Braudel, la vita non è facile. <<La mano deve lavorare i campi sassosi, trattenere la terra che fugge, zappare, piantare, pulire, raccogliere. Le donne devono crescere i figli, cucinare, lavorare nei campi, raccogliere le ghiande e le olive, andare a legna, andare alle fonti, fare le conserve[7]. >>

«E ogni volta bisogna affrettarsi, approfittare delle ultime piogge di primavera o delle prime autunnali, dei primi o degli ultimi giorni buoni. Tutta la vita agricola, e quindi il meglio della vita mediterranea, si svolge sotto il segno della fretta: la paura dell’inverno è là, bisogna riempire cantine e granai»[8].

I padroni, i proprietari, i signori non danno tregua: bisognava lavorare e mietere fino a quando è buio inoltrato (in dialetto: de “l’arba ‘ou tramuntu”). Stanchi  i contadini tornavano nelle loro umili dimore. Ma di tutto questo oggi, è rimasto solo ricordo, memoria, di cui dobbiamo esserne i curatori affinchè tutto questo non venga perduto.

Purtroppo con il processo di modernizzazione galoppante, <<interi paesi delle Serre, dell’Aspromonte, dell’alto e basso Jonio, dell’alto e basso Tirreno, si svuotano giorno dopo giorno. Ogni centro abitato ha dentro di sé una sua parte vuota, morta, abbandonata e fatiscente. È la fine, la dispersione dei paesi arroccati, dei paesi presepe dove per secoli si sono svolte le vicende delle popolazioni calabresi. Il rischio più grande è che non vi siano più le persone interessate a custodire memorie. Se in passato la Calabria si è presentata «un’isola senza mare», oggi bisogna evitare il rischio che resti un’isola senza un retroterra con cui comunicare>>.[9]

Attraverso l’analisi di alcune citazioni riportate, così come ci ricordano gli studiosi, dobbiamo stare molto attenti e porci in maniera diversa nei confronti dei nostri luoghi se non vogliamo un giorno perderli definitivamente.

Pietro Marchio

[1] V. Teti, terra senza centro, in rivista “Meridiana”, numero 44, 2002, p.180.

[2] Ivi, p. 181.

[3] Cfr. T. Campanella,  La città del sole, a cura di A. Seroni, Feltrinelli, 1991, Milano, p.341.

[4] V. Teti, terra senza centro… p.183.

[5]  Ibidem.

[6]  Ivi, p. 185.

[7] Ivi, p.188.

[8]  cfr. F. Braudel, Civiltà e imperi del mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, 2010, cit., p. 28.

[9] P.Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano, 1991.

Foto: Parco Nazionale della Sila di Pietro Marchio.

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