Il libro “La malaria in Calabria tra fine Ottocento e primo Novecento: una storia tragica tra miopie istituzionali e impegno dei singoli” è un saggio di carattere sanitario, storico e umano realizzato da Massimo Conocchia con la premessa di Pasquale Tuscano, pubblicato nel 2017 da Rubbettino Editore. Massimo Conocchia nasce a Cosenza nel 1965 e vive ad Acri, località di origine in cui cresce fino al trasferimento a Siena, dove si laurea in medicina con specializzazione in cardiologia e cardiochirurgia. Oggi è a Novara, dove lavora in ospedale e insegna all’università, ma è legato alla cittadina acrese, dove si reca spesso. È legato all’amico Pasquale Tuscano, nato a Bova e docente di letteratura italiana presso l’Università di Perugia.

La malaria diffusa tra Nord e Sud d’Italia (al Nord colpisce prevalentemente le mondine, al Sud i braccianti agricoli), è lo specchio della società di quegli anni, dove i proletari e i sottoproletari combattono contro la fame, i soprusi, la morte. La diffusione di questa malattia, importata dalle zanzare, viene favorita anche dalle scelte sbagliate delle classi egemoni e dei dirigenti governativi, così i più poveri, privi di un’assistenza sanitaria adeguata, si rivolgono a singole persone tra medici e sacerdoti che, con disinteresse, aiutano i malati.

Le testimonianze letterarie della diffusione della malaria sono numerose: da Giovanni Verga a Corrado Alvaro, da Umberto Zanotti Bianco ad Augusto Placanica. Il saggio assume un significato scientifico, sociale, economico e storico, inserendosi nella annosa Questione meridionale. Fino all’uso del DDT, portato sulle coste ioniche della Calabria dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale, che abbatte il fenomeno dell’anofelismo, portando via la tragica calamità, unico rimedio alla malaria è assumere per le persone colpite dalla malattia il chinino, farmaco sottoposto a monopolio di Stato e quindi commercializzato solo nelle rivendite di sali e tabacchi.

All’indomani dell’Unità d’Italia, la popolazione ammonta sui 20 milioni di persone; nel 1880 la popolazione italiana sale a 30 milioni di persone. Annualmente, si ammalano di malaria in questo periodo circa 2 milioni di persone, con una mortalità tra i 15 mila e i 20 mila individui. Al Nord Italia la situazione migliora con le campagne di bonifica e di profilassi della popolazione, mentre nel Mezzogiorno d’Italia la situazione è aggravata dalla povertà e dall’assoluta mancanza di strutture sanitarie di base, con la diffusione, oltre della malaria, anche di altre malattie infettive come la tubercolosi e l’anchilostomiasi. Nel Sud d’Italia l’elevata mortalità e l’emigrazione verso le Americhe provocano un blocco dello sviluppo demografico. Gli amministratori locali sono incapaci nel gestire il fenomeno e i governi centrali spostano risorse importanti verso la Lombardia, regione dove l’incidenza della malaria è molto bassa. La prima vera analisi condotta da Roma sulla diffusione della malaria viene condotta tra il 1879 e il 1880 dal senatore Luigi Torelli, che ha il compito di vigilare sulle condizioni igieniche delle linee ferroviarie. Nel Sud d’Italia le linee ferroviarie passano perlopiù sulle coste, dove le zone paludose sono numerose, favorite anche dai disboscamenti incontrollati per far spazio alle reti ferroviarie. Inoltre le condizioni si aggravano per la mancanza di servizi igienici di base nelle case, dove le persone vivono ammassate in una sola stanza con animali domestici e di allevamento; tutto questo aumenta la diffusione anche del tifo.

Tramite la ricerca scientifica, oggi sappiamo che la malaria è una malattia infettiva causata da un protozoo, un microrganismo parassita del genere “plasmodium”, che si trasmette all’uomo attraverso la puntura di zanzare del genere “anopheles”. All’epoca, tra Ottocento e Novecento, la conoscenza scientifica è assai approssimativa, e i medici e gli scienziati sulla malaria portano avanti due teorie: la teoria palustre, secondo cui la malaria si contrae respirando l’aria infetta delle paludi, e la teoria tellurica, secondo cui i terreni paludosi producono elementi velenosi organici generati da microorganismi dannosi per l’uomo che vengono trasportati dalle correnti e stanno in fermentazione dando vita ai fumi venefici. Gli scritti dell’avvocato Domenico Conte, cosentino, realizzati nel 1880, riportano conoscenze scientifiche sull’eziopatogenesi e la trasmissione della malaria totalmente errate, ma ci danno il giusto quadro sulle aree geografiche più colpite nella provincia di Cosenza e sulle mancate soluzioni al problema da parte degli amministratori.

Dopo la fine della prima guerra mondiale, numerosi scienziati si dedicano allo studio della malaria, tra cui gli italiani Camillo Golgi e Angelo Celli. Questi due intraprendono anche la carriera politica. Camillo Golgi, vincitore del Premio Nobel nel 1906, viene nominato senatore a vita per alti meriti scientifici, mentre Angelo Celli viene eletto deputato tra le fila dei Radicali; essi portano il dibattito sulla grave problematica della malaria in Parlamento e sono i fautori dell’approvazione della vendita del chinino come monopolio di Stato.

Agli inizi del Novecento, la malaria provoca morti e ingenti danni economici; da qui lo Stato si impegna nella distribuzione del chinino, una bevanda ricavata dalla pianta di china scoperta per la prima volta come rimedio alla febbre nel Seicento dal monaco agostiniano Calancha a Lima, in Perù, nel Sud America. Nel XIX secolo in Calabria si usa come rimedio alla febbre la scorza dell’albero di cucumiglio. In generale, nel Sud Italia le classi subalterne non si fidano dei medici perché provengono dalle classi medio-alte dei latifondisti.

Dal 1925 in avanti, nel Mezzogiorno d’Italia si iniziano a vedere buoni risultati contro la malaria. Per la cura di questa malattia, agli inizi del XX secolo si sviluppano due teorie: la prima prevede l’uso in maniera massiva del chinino, la seconda punta tutto sulla lotta al vettore della malattia, attraverso l’uso di petrolio e zolfo nelle acque stagnanti e la bonifica delle aree interessate della presenza della zanzara anofele. L’uso prolungato del chinino causa nei pazienti effetti collaterali dal punto di vista gastroenterico, come riporta il presbitero e sociologo acrese Vincenzo Padula nel periodico di sua realizzazione “Il Bruzio”.

Durante il periodo liberale postunitario in Italia i risultati contro la malaria sono nettamente insufficienti, così la propaganda fascista porta avanti la lotta della risoluzione del problema tramite le bonifiche idrauliche delle zone paludose. La campagna fascista contro la malaria viene sostenute economicamente dal petroliere statunitense John Davison Rockefeller, proprietario della Standard Oil Company, attraverso cui il governo di Mussolini dà vita nel 1934 l’Istituto di sanità pubblica, oggi chiamato Istituto superiore di sanità. Tuttavia, i piani di bonifica previsti da Mussolini vengono completati solo in pochissima parte e l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale fa sì che risorse importanti stanziate per la sanità siano utilizzate per le spese militari.

L’uso del DDT avviene in Italia per la prima volta a Napoli nel 1944 da parte degli americani per una epidemia di tifo. Dopo la seconda guerra mondiale, in Occidente si usa contro la malaria il farmaco della clorochina e in Cina l’artemisina, ricavata dalla pianta di artemisia; questi nuovi farmaci però generano resistenza. Alle mancanze dello Stato, l’impegno dei singoli medici, come Francesco Genovese, di Caulonia, è fondamentale per salvare vite. L’Italia viene dichiarata libera dalla malaria nel 1970 dall’Organizzazione mondiale della sanità, grazie all’uso di nuovi farmaci, alle campagne di profilassi e al miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie. Oggi la malaria è diffusa in maniera endemica solo nei Paesi sottosviluppati del Sud-Est asiatico e dell’Africa, per cui le case farmaceutiche investono poco nella ricerca di nuove cure contro questa malattia.

L’impatto socio-economico della malaria tra Ottocento e Novecento, soprattutto nel Sud Italia, è devastante. Gli storici ancora oggi dibattono se è la malaria a causare il ritardo economico o se le gravi condizioni sanitarie favoriscono il dilagare della malattia. Una risposta precisa non c’è; possiamo certamente dire che i fatti sono interconnessi e multifattoriali.  

La salute è uno degli elementi fondamentali del benessere di un popolo. L’Art. 32 della Costituzione della Repubblica italiana riconosce e tutela la salute come diritto fondamentale per l’individuo e la collettività, garantita da un servizio sanitario pubblico, universale e gratuito. Oggi la popolazione italiana ha una longevità alta (le femmine raggiungono la media degli 85 anni, i maschi invece 80 anni), collocandosi al quarto posto mondiale dietro Giappone, Svizzera e Australia, ma intorno alla metà dell’Ottocento la media di vita della popolazione italiana si registra sui 30 anni d’età. All’epoca le principali cause di morte sono le malattie infettive e le infezioni batteriche, oggi invece le neoplasie causano il maggior numero di morti in Italia. Fino alla fine della seconda guerra mondiale, in Calabria le infezioni da virus e batteri sono all’ordine del giorno, causate da scarse condizioni igieniche e dalla vita comune nelle case tra persone e animali. I pastori e i contadini, che trascorrono molte ore fuori casa, devono combattere contro zanzare, zecche e pulci, mentre le donne, dedite principalmente ai lavori domestici, hanno carenza di vitamina D e devono proteggersi dalle infezioni che portano i maiali, le galline, gli asini. In Calabria il maiale nero è autoctono del territorio, oggi riconosciuto con il marchio DOP, mentre i maiali rosa vengono importati nel Seicento dalla Cina. Riguardo ai suini, le autorità acresi nel 1880 prendono il provvedimento di far sì che le persone allevino i maiali al di fuori del centro abitato, per migliorare le condizioni igieniche e sanitarie della città e per dare un certo decoro urbano; questo provvedimento scatena la rivolta delle donne di casa, costrette a percorrere decine di chilometri per prendersi cura dei loro maiali, una fatica in più che si aggiunge a una vita piena di sacrifici.

L’emigrazione, prima verso le Americhe e poi nel continente europeo, al Sud dà respiro alla popolazione. Se nel Settentrione si riescono a ottenere maggiori diritti e un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro per le persone, nel Mezzogiorno questo avviene solo dopo il secondo dopoguerra perché manca una seria rappresentanza sindacale, manca un’adeguata coscienza di classe e manca lo spirito corporativistico e associazionistico. La malaria costringe le persone ad abbandonare le zone pianeggianti e collinari, tradizionalmente più fertili, per spostarsi nei luoghi montani, dove è diffuso il latifondo e le colture estensive, con condizioni di lavoro pessime. A questo punto l’emigrazione diventa uno sbocco necessario, soprattutto per i più giovani. Per la Calabria, la provincia di Cosenza è quella che registra più partenze dall’Unità d’Italia fino al termine della seconda guerra mondiale; si calcola che Acri nello stesso periodo vede andare via 648 persone all’anno. Alcune riforme di assistenzialismo e di miglioramento delle condizioni lavorative vengono introdotte dal governo Giolitti, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Nascono la mutualità volontaria per i lavoratori con l’Inail e il riconoscimento della malattia e della pensione per i lavoratori con l’Inps nello stesso anno, 1898. Tuttavia, queste tutele riguardano solo alcune limitate categorie di lavoratori e le pensioni coprono soltanto il 50% della forza lavorativa arrivata all’età di pensionamento. Per le persone non tutelate, l’unica garanzia di salute è rappresentata dal medico condotto, il medico di base o di famiglia, visto come un vero e proprio eroe, che, all’occorrenza, è capace di praticare qualsiasi funzione medica, dalla cura delle malattie infettive agli interventi chirurgici.

Nicola Manfredi

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