In Brasile c’è una consuetudine, che si riscontra soprattutto con le persone di una certa età: se chiedi ad una persona chi è Pelé, allora questi si toglierà il cappello e dirà “Obrigado Pelé!”, grazie Pelé. Ma se chiederai alla stessa persona chi era Garrincha, allora vedrai quest’uomo abbassare lo sguardo e una lacrima righerà il suo volto, come se si vergognasse di parlare di un così grande campione. Perché per i brasiliani Garrincha fu una gioia per gli occhi, un’emozione unica, ma anche un grande dolore: questo perché il povero Garrincha morì giovanissimo ad appena 49 anni, distrutto dall’alcool e dagli stravizi che hanno sempre caratterizzato la sua esistenza. Forse per i suoi connazionali Garrincha rappresenta un grande rimpianto, un amico che non si è riuscito a togliere fuori dai guai, dalle difficoltà della vita, e questo genera nei tifosi della Seleçao una grande tristezza che solo il ricordo dei suoi gol rende più leggero. Perché Garrincha fu questo: bellezza e disperazione, gioia e solitudine, piacere e dolore che nessuno riesce a dimenticare, malgrado la quantità di talenti che hanno popolato il meraviglioso Paese sudamericano.

Nascita e primissimi esordi

Garrincha, al secolo Manoel Dos Santos, nacque a Magé il 28 ottobre del 1933, discendente per parte paterna dalla tribù dei Fulnio, popolazione autoctona dell’Amazzonia. Come tutti i bambini di quella zona, Manoel (o come lo chiamavano i suoi genitori Mané) visse un’infanzia spensierata giocando tra gli alberi e catturando uccellini. La sorella maggiore, che svolgeva anche le veci di piccola madre, lo soprannominò Garrincha, come un minuto uccellino che è facile trovare appollaiato sui rami della foresta amazzonica. Proprio come un uccellino, Garrincha crebbe piccolo e deboluccio, segnato da vari problemi di salute quali la spina dorsale deformata, un ginocchio vario e una gamba di ben sei centimetri più corta dell’altra, probabile lascito della poliomielite. Malgrado le difficoltà, il piccolo Garrincha cominciò a giocare a calcio e fece subito capire di saperci fare, malgrado i tantissimi problemi di salute, tra cui anche un lieve ritardo cognitivo. La carriera calcistica di Garrincha cominciò solo alla fine degli anni ’40, quando andò a lavorare in una fabbrica tessile. Qui uno dei suoi superiori notò la grande attitudine del ragazzo per il calcio e per il dribbling, con cui umiliava i suoi avversari. Il suo scopritore salvò tante volte Garrincha dal licenziamento, proprio in virtù delle sue abitudini diciamo non propriamente salubri. Il suo primo impatto con il calcio che conta avvenne però soltanto nel 1953, cioè a 20 anni, un’età che per un calciatore è già considerata tarda. Fu il Botafogo la squadra che gli diede l’occasione di calcare i campi del professionismo brasiliano, strappandolo ai campetti di periferia, dove Garrincha offriva il suo talento solo per qualche cruzeiros e una cassa di birra.

Caratteristiche tecniche di Garrincha

La cosa che più colpiva dello stile di gioco di Garrincha era sicuramente il suo strano modo di incedere palla al piede. Garrincha ebbe, come abbiamo detto, svariati problemi alla schiena e alle gambe, eppure fu proprio questa sua disabilità a rendere la sua corsa e il suo dribbling tanto efficace. Il difensore che trovava Garrincha sulla sua strada veniva spiazzato da quell’incedere ciondolante eppure così veloce, quasi come le sue gambe fossero comandate da qualcun altro. Il dribbling di Garrincha divenne leggendario e la sua caratteristica di partire sempre dall’esterno del campo per poi accentrarsi o tentare il cross divennero il suo marchio di fabbrica. Oltre al dribbling ubriacante e alcune volte anche irrispettoso nei confronti dei difensori, Garrincha possedeva anche un tiro dallo stranissimo effetto che i suoi compagni del Botafogo e della Seleçao ribattezzarono “Tiro a banana”, proprio perché capace di imprimere ai palloni delle traiettorie imprevedibili e imprendibili per i portieri. Di contro, Garrincha fu un calciatore assolutamente anarchico, capace di giocate fantastiche ma che non di rado si intestardiva in dribbling fini a sé stessi, autentica croce e delizia per chi aveva l’incombenza tutt’altro che facile di mandarlo in campo. Il suo modo di giocare fu avvicinato da vari commentatori di calcio sudamericani all’arte marziale brasiliana chiamata “Capoeira”, composta da movimenti molto agili e belli da vedere. Sia lui che Pelé utilizzarono un modo di giocare che faceva divertire i tifosi ma faceva ammattire gli allenatori, lo stile della Ginga (il passo base della Capoeira), ma la differenza tra i due era marcatissima. Infatti se Pelé fu sempre molto disciplinato tatticamente e a servizio della squadra e della manovra, Garrincha fu sempre un solista, capace di far segnare tantissimi gol ai suoi compagni in attacco ma che amava troppo il pallone, strumento delle sue magie. Armando Nogueira, scrittore brasiliano innamorato del Fútbol, ritenne Pelé e Garrincha espressione del dualismo tra apollineo (ovviamente Pelè) e dionisiaco, un artista e un atleta, comunque capaci di completarsi a vicenda e di far sognare i propri tifosi a colpi di dribbling e gol fantastici.

La carriera nelle squadre di club

Dopo i primi esordi con la squadra della fabbrica dove lavorò da giovane, si affacciò al calcio che conta solo nel 1953, quando venne messo sotto contratto dal Botafogo, una delle più blasonate e antiche squadre brasiliane. Qui Garrincha rimase per ben 12 anni, giocando quasi 600 partite e segnando la bellezza di 250 gol e regalando spettacolo per i fortunati tifosi del Botafogo. Insieme alle stelle della Seleçao Didi’, Vavà, Nilton, Gerson e tanti altri, trascinarono la squadra di Rio de Janeiro alla vittoria di 3 campionati Carioca, di una Taça Rio e di una Coppa Torneo de Inicio de Rio, una sorta di lega cittadina della città di Rio. Purtroppo fu quando nel 1963 Garrincha lasciò il Botafogo che per lui cominciarono i problemi: infatti nello stesso anno un’operazione tra Juventus, Inter e Milan avrebbe dovuto portare il calciatore in Italia (il quale avrebbe giocato un anno in ognuna delle partecipanti all’affare), ma proprio in quei mesi Garrincha cominciò ad accusare gravi dolori alle articolazioni dell’anca e del ginocchio, molto probabilmente a causa delle sue malformazioni. Cominciò a cambiare tantissime squadre in Brasile, tanto che verso la fine della sua carriera si trovò a giocare in una squadra di semiprofessionisti in quel di Roma, dove si era da poco trasferito per qualche mese. Nel 1972 Garrincha giocò la sua ultima partita con la casacca dell’Olaria, un piccolo club di Rio de Janeiro. Curiosamente, la squadra con cui disputò l’ultimo match della sua carriera straordinaria ma intervallata da momenti di sbandamento, fu proprio contro i bianconeri del Botafogo, che lo avevano lanciato nel calcio che conta.

Il primo Mondiale dei Verdeoro

La carriera di Garrincha con la nazionale verdeoro cominciò nel 1955, quando esordì nel Trofeo O’Higgins, una competizione che si giocava annualmente tra Cile e Brasile. Il primo torneo davvero importante per Garrincha fu il Mondiale svedese del 1958, quando venne convocato dal CT brasiliano Vicente Feola. Garrincha le prime partite venne tenuto in panchina dall’allenatore in quanto ritenuto poco idoneo al gioco della squadra. Lo psicologo della squadra sottopose il giocatore ad una serie di test psicologici e il risultato fu davvero impietoso: la personalità di Garrincha venne definita “infantile, individualista, incapace di fare qualcosa in un gruppo di persone diverse”. Grazie all’intervento di Nilton, il capitano della squadra, Garrincha venne schierato nella decisiva partita con l’Unione Sovietica e il ragazzo gracile e poco sveglio fece ammattire il terzino sovietico, contribuendo alla vittoria per 2 a 0 del suo Brasile. Da quel giorno il CT Feola non lo levò più dal campo, ma anzi fu uno dei trascinatori della squadra, che portò a casa la prima Coppa Rimet della sua storia. Garrincha venne anche inserito nel miglior undici del Mondiale, consacrandosi come talento emergente della nazionale verdeoro. Quel Mondiale riuscì a lavare l’onta della sconfitta del 1950, quando avvenne il cosiddetto Maracanazo: la sconfitta più dura da digerire per il popolo Carioca (certo nessuno poteva immaginare che 64 anni dopo la Germania avrebbe rifilato 7 reti al Brasile in casa, davanti al proprio pubblico). La sconfitta contro gli Uruguagi venne lavata da questo meraviglioso trionfo, che poneva finalmente il Brasile nell’Olimpo del calcio mondiale dopo tanti anni di risultati altalenanti.

Il trionfo in Cile ‘62

Ai Mondiali in Cile del 1962 il Brasile si presentò da favorita assoluta, vista la straordinaria abbondanza di talenti, infatti oltre al nostro eroe si potevano trovare Amarildo, Zagallo, Pelé e tanti altri. Alla seconda partita del Mondiale la grande stella Pelé subì un infortunio molto serio, che lo fece fuori dai giochi. La squadra venne allora affidata alle invenzioni di Garrincha e alla concretezza di Amarildo e Zagallo, due giocatori che dimostrarono di essere all’altezza de O’ Rey. Superati agevolmente i gironi e con un solo pareggio, la formazione verdeoro trovò sulla sua strada l’Inghilterra, un quarto di finale che poteva essere considerato come una finale anticipata. La stella di Garrincha quel giorno illuminò lo stadio di Viňa del Mar segnando una doppietta nel 3 a 1 con cui il Brasile regolò gli inglesi. In semifinale il Brasile incontrò i padroni di casa del Cile, scandalosamente aiutati dagli arbitri, che concedevano qualsiasi scorrettezza ai cileni. I brasiliani, malgrado la cura di calci a cui vennero sottoposti, rifilarono 4 reti ai cileni, di cui due firmate Garrincha. Due reti splendide, due tiri al fulmicotone che il portiere cileno poté solo seguire con lo sguardo mentre entravano in porta. In finale i Verdeoro sfidarono la Cecoslovacchia, l’unica squadra ad aver costretto i brasiliani sul pareggio durante il girone. Il 26 giugno a Santiago del Cile il Brasile vinse per 3 a 1 contro i cechi, Garrincha non riuscì a segnare ma fornì due assist per altrettante reti dei suoi compagni di squadra. Il trionfo nel Mondiale cileno servì innanzitutto a far capire ai brasiliani che la Seleçao non era solo Pelé, che anzi era stato sostituito egregiamente dai vari Zito, Amarildo e Zagallo e anche a far emergere definitivamente il grande talento di Garrincha, che venne nominato miglior giocatore del Mondiale. Questa fu sicuramente la punta più alta della sua carriera, che paradossalmente proprio nel momento di massimo fulgore cominciò a spegnersi.

La delusione del 1966 e il lento declino

Il Mondiale inglese del 1966 fu una cocente delusione per i brasiliani, che vennero sconfitti dall’Ungheria e dall’ottimo Portogallo della “Perla Nera” Eusebio, la punta di diamante dei lusitani. Garrincha arrivò al Mondiale stanco e affaticato, appesantito dai dolori alle ginocchia e all’anca, fastidi che condizionarono tantissimo le prestazioni dell’asso brasiliano. Garrincha segnò due gol nel torneo, ma non bastarono a regalare i quarti di finale ai tifosi carioca, che anzi contestarono pesantemente la squadra, rea di aver sottovalutato l’impegno e di aver fatto fare una brutta figura all’intera nazione. La partita contro la Bulgaria, l’ultima del girone e unica vittoria dei brasiliani, fu l’ultima di Garrincha con la maglia verdeoro. Il 19 dicembre del 1973 Garrincha giocò la sua ultima amichevole in nazionale, una sfida per rendere onore al grande calciatore che così tante gioie aveva regalato al suo Paese. Purtroppo dopo l’addio al calcio, la vita di Garrincha cominciò a diventare sempre più complicata, segnata dai problemi di salute (abuso di alcol e medicinali) e dai problemi personali (dettati dai problemi economici e dalle sue vicissitudini con le sue compagne di vita). Gli ultimi anni della sua vita Garrincha li visse in condizioni di indigenza, dimenticato da tutti a combattere contro un demone troppo più grande di lui. La sua ultima compagna, Vanderleia Vieira, cercò di farlo smettere di bere facendolo assumere da una associazione che si occupava di salvare i bambini di strada insegnandogli il Fútbol, ma questo non impedì a Garrincha di continuare la sua opera di autodistruzione. Fu internato in una clinica di disintossicazione dall’alcol la prima volta alla fine del ’78, ma ogni tentativo di salvarlo fu vano, tanto che gli ultimi tempi i suoi amici erano costretti ad andare a recuperarlo nelle bettole di Rio, dove era solito bere fino a tardi.

Gli ultimi giorni

La sera nel 20 gennaio del 1983 all’ospedale Alto da Boavista sopra Rio de Janeiro, due medici, Ana Helenio Bastos e Maria Beatriz Carneiro da Cunha misero Garrincha su una sedia a rotelle e lo trasportarono al padiglione Santa Teresa, quello riservato agli alcolizzati. Gli somministrarono del siero glicosado, Griplex, Lasix e vitamina B e dissero agli infermieri di legarlo al letto, se necessario.
Garrincha venne lasciato addormentato e solo, la stella più solitaria di quella notte estiva. Tutto il suo corpo era in rivoluzione, quel corpo che non gli serviva più per scattare sulla linea destra e trasformare i suoi dribbling, sempre eguali e sempre diversi, in autentici numeri che hanno fatto delirare milioni di fanatici del calcio. Quel suo corpo che non poteva più metabolizzare tutte le bottiglie bevute…quel corpo non serviva più a niente. L’autopsia rivelò che il suo cervello, il cuore, i polmoni, il fegato, il pancreas, l’intestino e i reni erano parzialmente distrutti dall’alcol. Un edema polmonare lo uccise a metà dell’alba. Alle sei del mattino del 21 gennaio 1983, l’infermiere Aimoré chiamò la dottoressa Fatima che constatò il decesso. Lei prese carta e penna e informò la direzione dell’ospedale. Morì così Manoel Dos Santos, detto Garrincha, uno dei pochi brasiliani che non ha bisogno di presentazioni. Anche chi non sa di football sa che fu un genio del dribbling, eroe di due campionati del mondo, l’uomo più amato dell’intero Brasile. Sa anche però delle sue vicende da alcolista, delle sue alterne avventure con donne bellissime e problematiche, storie d’amore che gli regalarono ben 14 figli ma di cui non si prese cura, bambini che dovettero crescere con un cognome ingombrante sulle spalle, soli a piangere un padre che si stava distruggendo con le proprie mani. Quando morì Garrincha, a 49 anni, nella miseria e nell’abbandono, un sentimento di colpa di abbatté su tutto il Brasile, che ancora una volta si dimostrò ingrato con uno dei suoi figli più ingenui e più amati, un figlio che aveva regalato tanto ai brasiliani ma che nel momento di difficoltà non ebbe nulla, se non l’oblio e l’indigenza. Una brutta storia, una favola amara che neanche i gol e i dribbling riesce a rendere più digeribile, un pugno nello stomaco per tutti coloro che hanno esultato vedendo questo funambolo dalle gambe storte umiliare i terzini avversari.

Giovanni Trotta