Il Post genocidio

Già dai primi di luglio del 1994 una moltitudine di hutu cominciò a dirigersi verso i Paesi confinanti con il Rwanda e specialmente nell’immenso Zaire di Mobutu, dittatore del Paese e grande amico sia di Habyarimana che dell’Hutu Power. In cinque giorni (dal 14 al 19 luglio 1994) Goma, una città di circa 120.000 persone sulle sponde del lago Kivu, venne invasa dalle ondate di profughi hutu, in tutto 700.000. Non si registrò mai un esodo tanto numeroso in così poco tempo. I profughi si sistemarono su un terreno vulcanico che non consentiva di scavare latrine e fosse comuni dove seppellire i morti, scoppiò quindi una devastante epidemia di colera che falcidiò la popolazione e il contagio ben presto raggiunse anche le uniche fonti di acqua disponibili (il lago Kivu è ancora oggi definito non potabile). Le uniche persone che riuscirono a soccorrere i profughi furono solo alcune decine di operatori delle organizzazioni umanitarie e in meno di 15 giorni raccolsero un qualcosa come 45.000 cadaveri. Antonio Affaitati, giornalista free lance di stanza in Zaire in quei terribili giorni, scrisse queste parole: “Di fronte a me c’erano delle lunghe file di corpi che continuavano per quattro chilometri, a fronteggiare quest’ecatombe c’erano solo poche decine di volontari”. Philip Gourevitch scrisse nel suo libro famosissimo, Desideriamo informarvi che domani saremo uccisi insieme alle nostre famiglie: “Ho conosciuto due ragazzi che lavoravano con una Ong per arginare l’emergenza profughi a Goma. Entrambi i ragazzi avevano problemi psichici, non riuscivano più a dormire a causa del terrificante spettacolo a cui avevano assistito in quei giorni”. Lo scenario apocalittico venne mostrato da centinaia di foto reporter che si precipitarono in Rwanda. I giornalisti erano poco preparati sulla vicenda ruandese e si lasciarono andare a stereotipi molto diffusi nella mentalità occidentale: quei profughi sfuggivano da guerre etnico-tribali che ciclicamente tornavano a insanguinare l’Africa. In quei giorni concitati successe qualcosa di molto particolare: gli USA prima di mandare dei blindati di seconda mano per la UNAMIR II, inutili per salvare i tutsi nelle ultime ore del genocidio, chiesero il pagamento anticipato. Per l’emergenza profughi l’Unione Europea e gli USA spesero circa un miliardo e mezzo di dollari in poche settimane, per la UNAMIR le Nazioni Unite in quasi tre anni spesero circa 500 milioni di dollari. In molti in Rwanda si chiesero se quegli aiuti avrebbero dato un po’ di sollievo ad un Paese distrutto, ma circa i tre quarti di quei soldi venne speso fuori dal Rwanda. In pochi giorni arrivarono circa un centinaio di missioni umanitarie che aiutarono centinaia di migliaia di persone, ma inevitabilmente offrirono il loro aiuto anche ai massacratori dei tutsi, che cominciavano a riorganizzarsi nei giganteschi campi profughi. Nascosti tra la massa dei fuggiaschi, si rifugiarono quarantamila miliziani armati che approfittarono della situazione per prendere il controllo dei campi. Questi instaurarono ben presto un clima di terrore e pianificarono attacchi contro le popolazioni stanziate al di là dei confini. L’esercito francese addirittura li aiutò fornendo loro carburante ed assistenza, invece di provvedere a disarmarli. I soldati francesi portarono tonnellate di derrate alimentari nel campo profughi di Goma, ma non lo affidarono alle mani degli operatori delle Ong, ma direttamente in quelle dei genocidari che gestirono il prezioso aiuto. La stessa cosa successe per gli aiuti delle altre nazioni che vennero incamerati dalle milizie, le quali riuscirono anche a riattivare gli strumenti della propaganda genocidaria come RTLM e Kangura. Lo speaker Gaspard Gahigi venne intervistato da una troupe televisiva e rilanciò un tema caro a tutti i nemici di Kagame: “In Rwanda ci sono stati tantissimi morti tra i civili, è vero, ma sono state causate da esplosioni isolate d’odio dopo l’assassinio del presidente e dopo aver saputo che il Fronte era vicino a Kigali”. Né l’Onu e né nessun’altra nazione riuscì a disarmare i redivivi miliziani e solo le Ong affrontarono con coraggio la situazione. Medici Senza Frontiere abbandonò il campo, ma ben presto il problema si presentò con la stessa gravità anche negli altri campi in Tanzania ed in Burundi. Il giornalista Fergal Keane intervistò il sindaco di Rusumo, Sylvestre Gacumbitsi, il quale venne accusato di aver condotto alla morte circa 3.000 persone nella chiesa di Nyarubuye. Gacumbitsi gestì il campo profughi di Benaco in Tanzania, protetto e riverito da decine di ragazzi armati di machete e bastoni. La testimonianza del giornalista irlandese è davvero un pugno nello stomaco per tutti coloro che conoscono la vicenda del Rwanda: “E’ incredibile. Quest’uomo è troppo intelligente. E’ scampato alla giustizia ed ora gestisce da solo un campo profughi. Potrebbe farci picchiare, cacciare oppure ucciderci, eppure non lo fa. Non gli serviamo. L’unica cosa di cui ha bisogno sono i suoi cani da guardia”.

La violenza continua

Durante l’Operazione Turchese vennero creati campi profughi non solo nei Paesi confinanti, ma anche in Rwanda. Nel sud-est del Paese si rifugiarono circa 600.000 persone, asserragliate in pochi kilometri quadrati e timorosi di rappresaglie da parte del Fronte. Il governo ruandese, dopo aver chiesto inutilmente alla comunità internazionale aiuto per fronteggiare la difficile situazione, decise di intervenire e fu un vero e proprio massacro. Il 18 aprile del 1995 venne sgomberato il campo di Kibeho, che arrivò a contare 80.000 profughi e in quattro giorni persero la vita circa 4.000 persone. L’episodio suscitò molta emozione tra i cooperanti e tra i diplomatici stranieri e a niente valse la smentita del governo che ridimensionò le vittime al numero assurdamente basso di 334 persone. Questo fu il commento di Kagame sull’operazione che portò alla chiusura del campo: “Sono morte molte persone, lo riconosco, ma siamo riusciti a farne tornare molte altre alle loro case”. In Zaire la situazione cominciò a diventare esplosiva quando gli estremisti che avevano trovato rifugio nel campo profughi di Goma trovarono altri tutsi contro cui scagliarsi, i Banyarwanda. I Banyarwanda sono delle popolazioni di origine ruandese che vennero trasferite nelle fertili terre vicine al lago Kivu dai tedeschi nei primi anni del ‘900. Il loro nome significa sostanzialmente “figli del Rwanda”. Per scongiurare un altro caso Kibeho le Nazioni Unite proposero una forza di pace da schierarsi come cordone di sicurezza. Ma Kagame aveva già deciso. Quattro gruppi di nemici di Mobutu, guidati dall’esperto guerrigliero Laurent Kabila, formarono una sorta di coalizione che viene nominata “Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo Zaire”, di fatto diretta ed addestrata dalle forze ruandesi. Laurent Desire Kabila fu un rivoluzionario congolese che partecipò alla rivolta dei Simba negli anni ’60. All’epoca anche Ernesto Che Guevara aveva preso parte alla rivoluzione congolese. Il tentativo si era risolto con un fallimento e Kabila si era riciclato come contrabbandiere. Dopo trent’anni il presidente ugandese Museveni lo mise a capo di una potente coalizione con l’obiettivo di abbattere il potere assoluto del dittatore Mobutu. Ottenuto quindi il supporto di Burundi ed Uganda, Kabila dichiarò guerra al “vecchio dinosauro Mobutu”. Il 14 novembre 1996 l’alleanza attaccò il campo profughi di Mugunga, che era ormai diventato una vera e propria base dell’estremismo hutu. Il campo venne smantellato e circa 500.000 ruandesi ritornarono alle loro case, seguiti dopo qualche giorno da altre 200.000 unità. Molti profughi si rifugiarono nell’intricata foresta congolese e tra di loro molti miliziani ancora in armi. La coalizione li inseguì e puntò diretta verso Kinshasa, la capitale dello Zaire. L’avanzata fu fulminea e il 17 maggio del 1997 i nemici di Mobutu conquistarono il Paese. Mobutu fuggì in Marocco dove morì a causa di un cancro alla prostata. Laurent Kabila si dichiarò presidente e rinominò il Paese Repubblica Democratica del Congo.

La lenta ripresa di una nazione dilaniata dalla violenza

La rinascita del Rwanda venne messa a dura prova oltre che dai campi profughi anche dalle precarie condizioni del Paese. All’indomani del genocidio vennero abolite e distrutte le carte di identità etniche e si formò un governo con Primo Ministro Faustin Twagiramungu e con Presidente della Repubblica Pasteur Bizimungu. Ma ovviamente non si poté riprendere a vivere come se niente fosse successo. La violenza che attraversò il Paese per quattro mesi creò delle divisioni molto forti, accentuate anche dal fatto che in Rwanda ritornarono circa 750.000 tutsi. Questi vennero chiamati i Returnes, tutsi che scelsero la via dell’esilio durante le grandi purghe degli anni ’60. Vennero presi come degli invasori dagli altri ruandesi, infatti furono visti come “diversi” sia per cultura (molti di loro venivano dall’Uganda, quindi di cultura anglofona) che per condizioni economiche. Questa situazione creò insicurezza e sospetti tra la popolazione ruandese, che decise di tenersi lontana dai nuovi arrivati. Il capo dello staff del ministro Twagiramungu, J. Ntakirutimana, si dimise con parole durissime: “Per trent’anni abbiamo subito le violenze da parte degli hutu, ora sono i tutsi a comandare. Noi credevamo che con la vittoria del Fronte le cose sarebbero state diverse, ma Kagame non ha fatto altro che restaurare il dominio tutsi”. Nell’agosto del 1995 si dimise anche Twagiramungu, ormai in aperta polemica con Kagame sul problema della tolleranza tra hutu e tutsi, insieme ad altri quattro membri del governo. Il problema della sicurezza non si risolse però con la chiusura dei campi profughi, anzi paradossalmente la situazione divenne esplosiva proprio dentro i confini nazionali. A Gisenyi, cittadina del nord-ovest del Rwanda, rientrarono migliaia di hutu e tra loro molti Interahamwe. Nell’aprile del 1997 un commando di hutu si scagliò contro due scuole femminili di Kibuye e di Gisenyi. Questi intimarono alle ragazzine di separarsi tra hutu e tutsi, ma le giovani rifiutarono dichiarandosi tutte ruandesi. I miliziani uccisero 33 ragazzine ed una suora belga che vennero dichiarate eroine nazionali. Ma neanche il Fronte fu immune da accuse di atti gravissimi, infatti nell’ottobre del ’97 l’esercito massacrò migliaia di civili hutu presso la cava di Nyakimana; il 9 novembre invece i militari spararono sulla folla che protestava per le violenze delle forze armate uccidendo circa 150 civili. Altri atti di violenza si registrarono in tutto il Rwanda nord-occidentale durante il ’97 e a farne le spese furono gli hutu, i quali venivano spesso accusati ingiustamente di attacchi razzisti e di conseguenza colpiti con durissime rappresaglie.

La seconda guerra mondiale africana

La prima guerra che aveva visto coinvolto il Rwanda dopo il bagno di sangue scoppiò per un motivo molto chiaro: liberarsi dal pericolo rappresentato dai campi profughi. La seconda guerra scoppiò per motivi più nascosti. Nel luglio del ’98 Kabila dichiarò che l’alleanza tra le forze ruandesi e quelle congolesi era da ritenersi conclusa in quanto aveva raggiunto lo scopo. L’ex alleato, che già stava saccheggiando le regioni del Kivu e dell’Ituri di materie prime preziosissime, diede il via ad una seconda guerra che per il numero delle parti in campo venne definita “Seconda guerra mondiale africana”. Questa guerra vide la partecipazione di varie nazioni africane tra cui: Rwanda, Uganda, Zimbabwe, Angola, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo, oltre a svariate milizie paramilitari armate dai “Lords of war”. La devastazione dell’Ituri e del Kivu fu impressionante e il numero dei morti raggiunse la spaventosa cifra di 6 milioni. Il Rwanda si rese colpevole di uccisioni arbitrarie di civili e tutti gli eserciti, stremati dal conflitto, reclutarono tra le loro fila migliaia di bambini tra i sette e i quattordici anni. Amnesty International accusò il governo di Kigali di aver addestrato oltre 45.000 bambini. Anche in Congo l’ONU schierò i caschi blu, e la missione (La MONUC), per quanto ben armata e molto numerosa (circa 20.000 soldati) non riuscì a bloccare la situazione. Perché? Alla domanda rispose una commissione di inchiesta diretta dall’ambasciatore egiziano Kassem, che svelò la relazione tra depredamento delle risorse e il protrarsi delle violenze. Per poter sfruttare le risorse del Congo tutte le forze presenti nel Paese compirono stragi e costrinsero i civili ai lavori forzati. Una volta venduto il maltolto venivano acquistate altre armi per poter così continuare le violenze. Kassem fece il nome di 85 imprese belghe, francesi, israeliane, statunitensi e di altri Paesi, ma il meccanismo non venne fermato. Nel giugno del 2003 arrivarono a Bunia 1.500 militari francesi che riportarono la calma e la sicurezza nella regione. Tale missione, denominata Artemide, diede se possibile ancor di più ragione a Romeo Dallaire, il quale da sempre diceva che per fermare le violenze sarebbero bastate poche migliaia di uomini ma ben motivate e armate.

Un lento cammino verso la normalità

Nel marzo 2000 il presidente Bizimungu si dimise e il posto venne preso da Kagame. A guidare il Paese rimase un élite tutsi che decide a suo arbitrio. Il 19 aprile 2002 venne arrestato Bizimungu e Charles Ntakirutinka, ex ministro dei lavori pubblici. I due vennero condannati a 15 anni di carcere con l’assurda accusa di aver turbato la sicurezza della nazione. Le prime elezioni presidenziali del dopo genocidio si svolsero nell’agosto del 2003 e Kagame le vinse con una percentuale del 95% dei consensi. Malgrado il grande consenso del generale, Amnesty International accusò il regime ruandese di brogli e violenze nei confronti degli oppositori. Per le elezioni del 2010 la situazione non sembrò affatto migliorata. Infatti dal 2008 la costituzione ruandese è stata arricchita di un nuovo articolo che punisce l’ideologia genocidaria. Molti oppositori di Kagame vennero accusati di essere simpatizzanti dell’Hutu Power e imprigionati con delle pesantissime condanne. Human Right Watch dichiarò che molti leader dell’opposizione di etnia hutu, ma anche tutsi, sono stati accusati del reato di favoreggiamento e di propaganda genocidaria e quindi costretti a lasciare il Paese. Nonostante le critiche rivolte contro il regime, Kagame rivinse le elezioni della primavera 2010 con una percentuale bulgara, ma questa volta, malgrado tante accuse di mancato rispetto dei diritti umani, le elezioni sembrarono essersi svolte in maniera meno sospetta e questo venne considerato un grande passo avanti per un Paese che quattordici anni prima aveva visto scatenarsi l’inferno. Le ultime elezioni, tenutesi nel 2017, hanno nuovamente confermato il partito di Kagame con un risultato che sfiora il 93% dei consensi. Anche queste elezioni sono state contestate da oppositori e Ong, ma hanno visto l’aumento esponenziale delle donne elette nel parlamento. Certo per il Rwanda i problemi non sono finiti, ma sicuramente il Paese è vivo e risponde alle necessità dei cittadini con grande solerzia. Le ferite restano, il dolore rimane e sarà impossibile per il popolo ruandese dimenticare ciò che ha subito nel silenzio del mondo intero. Questa giovane repubblica che viene accusata da molti intellettuali di non dare spazio alle opposizioni ha fatto e sta facendo di tutto per recuperare un popolo diviso da una violenza senza fine. Il fatto che questo Paese riparta dalle donne, la categoria che più aveva sofferto durante quei terribili 100 giorni, è sicuramente un qualcosa di importante che andrebbe preso da esempio, soprattutto da noi italiani che ancora soffriamo di un sentimento sessista e machista purtroppo radicato anche nelle nuovissime generazioni.

Giovanni Trotta