I dolori di pancia (in dialetto calabrese “dogli ‘e trippa”) era il disturbo di salute più frequente per la cattiva e scarsa alimentazione. Colpiva principalmente i ragazzi, che, non resistendo alla fame, si abbuffavano di frutta ancora acerba.

I rimedi più diffusi per levare il disturbo erano quelli di assumere un decotto di camomilla in cui si aggiungevano tre foglie di alloro (il numero delle foglie doveva essere sempre dispari, per il rispetto della tradizione della simbologia, fondamentale affinché la cura avesse l’effetto sperato), o bere un decotto di acqua bollita, oppure cospargere la pancia dolorante di due mazzetti di un’erba male odorante, chiamata pulicaria, richiamando il simbolo della croce. Quando si praticavano queste cure si recitavano delle parole con lo scopo di scacciare il dolore.

Per guarire, si ricorreva spesso a dei riti nati da credenze popolari, i cosiddetti “calmi”, eseguiti da persone a cui la comunità assegnava dei poteri magici, attraverso cui queste persone esperte nel rito riuscivano a placare il disturbo. Il rituale avveniva nel seguente modo: il malato si posizionava supino, e il guaritore col palmo della mano effettuava una leggera pressione sulla parte dolorante del ventre, recitando delle formule a forma di filastrocca con protagonisti le figure di Gesù Cristo e San Biagio, che, secondo la credenza popolare, hanno la capacità di intercedere sul malato e togliere il fastidioso disturbo. L’invocazione a San Biagio nasce da una leggenda legata alla sua figura. Il religioso, di ritorno da un viaggio di pellegrinaggio dalla Francia, chiese rifugio a una casa abitata da una coppia di contadini per riposare la notte;  il marito acconsente, ma la donna non concede l’ospitalità al santo, negandogli il cibo e il rifugio per la notte. Dopo la mezzanotte però, la moglie del contadino avverte dei dolori di pancia atroci, così l’uomo scende per strada a chiedere aiuto, ma interviene San Biagio che, nonostante la cattiveria della donna nei suoi confronti, interviene e guarisce la donna.

La capacità di risolvere il fastidio non era certamente l’intervento di San Biagio o Gesù Cristo, ma la massoterapia, ossia massaggiare la parte dolorante ripetutamente. Era usanza porre sulla pancia dolorante un filo di ginestra, ma per fare effetto non bisognava pronunciare il nome dell’erba. Altri rimedi erano bere infusi ottenuti con semi di anice raccolti in Sila, mangiare pane ammuffito o fave secche. Si credeva anche che le corde o le pallottole utilizzate durante l’esecuzione di condannati  a morte avessero potere curativo, per cui le corde venivano legate alla vita e le pallottole venivano poste sul ventre per curare il mal di pancia. I peli del lupo, il farsi strofinare l’addome da un piede di un bimbo in numero dispari oppure mettere sull’ombelico la radice di un peperoncino avevano il potere di esorcizzare il fastidio.

Anche i piccoli erano colpiti da fastidiose coliche addominali, che nel dialetto calabrese prendono il nome di “pasimi” (in italiano “spasmi”). Contro gli spasmi, le madri dei bimbi masticavano delle foglie di bacche o delle foglie di lauro in numero dispari da cui ricavavano un succo da dare ai piccoli afflitti dal dolore o, per dare sollievo ai bimbi sofferenti, posizionavano i piccoli a testa in giù. 

Da “La medicina popolare in Calabria”, di G. Abbruzzo e M. Conocchia, Edizioni Alimena – Orizzonti Meridionali 2019.

Nicola Manfredi

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