Il Mondiale di calcio è un evento unico perché mette in mostra squadre che sono lontane dal comune immaginario non solo per questioni geografiche, ma anche culturali e perché no anche calcistiche. Sono squadre di Paesi che spesso sentiamo nominare solo per eventi luttuosi o per la povertà che da sempre li sferza, ma per ragioni oscure ed incomprensibili queste nazionali diventano dei miti, delle leggende vere e proprie. Prendono il loro posto nel cuore degli appassionati di calcio e ogni tanto riemergono quando le ricordiamo, giusto il tempo di regalare un sorriso per poi tornare al loro posto tra i ventricoli. Questo è ancora più vero se si guarda ai Mondiali del 2002 e alla straordinaria cavalcata del Senegal, che riuscì ad arrivare fino ai quarti, il massimo risultato raggiunto (almeno fino ad ora) per una nazionale africana.

Bruno Metsu, il guru della nazionale senegalese

La favola del Senegal avrebbe potuto non vedere la luce se fosse rimasto sulla panchina senegalese l’allenatore tedesco Peter Schnittger. Quest’ultimo, con i suoi modi da sceriffo di ferro, riuscì a sfaldare una nazionale che aveva fatto della comunità di intenti la sua filosofia. Schnittger vietò capelli lunghi, perline, la presenza del Marabut (lo stregone ufficiale della squadra) e cosa ancora più grave allontanò in malo modo i suonatori di tamburi che tenevano alto il morale dei ragazzi durante gli allenamenti. I senatori della squadra cominciarono a disertare in massa le convocazioni fin quando alla Federcalcio senegalese venne proposto il nome di Bruno Metsu, un bianco con il cuore di un nero, come amava dire di sé questo strano personaggio, ex giocatore francese e da poco esonerato come CT della Guinea Conakry. Metsu riuscì a rimettere in piedi lo spogliatoio, fece cadere gli assurdi divieti del suo predecessore e riprese i rapporti con le squadre di club dei calciatori senegalesi, sempre restie a dare i loro campioni alla nazionale. Metsu in pochissimo tempo raccolse i risultati sperati, infatti il Senegal staccò il biglietto per i Mondiali di Corea e Giappone e arrivò in finale di Coppa d’Africa, battuto ai rigori dal Camerun. Con la sua calma e la sua diplomazia il tecnico francese riuscì a riportare entusiasmo tra i calciatori, che vennero inseriti in un girone di ferro composto da Francia, Danimarca e Uruguay. Il Mondiale del Senegal cominciò alle 13 ora italiana del 31 maggio contro la Francia e fu un esordio davvero impensabile.

La fase a gironi

Dopo qualche anno dalla partita l’attaccante Henry Camara dichiarò di non aver dormito neanche un minuto la vigilia della prima partita. Ammise candidamente di essere rimasto fino alle cinque del mattino in un bar a bere coca cola e a guardare la tv cinese. Forse a Zidane e Henry scappò una risata quando videro i ragazzi di Metsu fare il riscaldamento, ma ben presto quella risata si sarebbe tramutata in rabbia. La Francia si presentò in campo da campione in carica e sicuramente sottovalutò questi ragazzi dal fare scanzonato e dalle magliette colorate. La partita finì incredibilmente 1 a 0 per il Senegal grazie al gol di Papa Bouba Diop, centrocampista del Fulham. L’entusiasmo dei senegalesi fu incontenibile e anche tra gli appassionati di calcio il Senegal cominciò a diventare una squadra simpatia, un’armata Brancaleone bella da vedere e soprattutto spensierata, lontana kilometri dalle squadre fatte da campioni troppo pieni di sé. La seconda partita contro la Danimarca finì 1 a 1 grazie alle reti di Tomasson e Diop. La terza invece mise di fronte il Senegal all’Uruguay e ne uscì fuori un pirotecnico 3 a 3, deciso dalle reti di Papa Bouba Diop (doppietta) e di Fadiga. Il Senegal riuscì a passare come secondo il girone, mettendo alla porta sia la Francia che l’Uruguay, molto più quotate della selezione africana. In molti cominciarono a tifare apertamente per questi ragazzi, che durante gli allenamenti ballavano e la sera tornavano in albergo dalle loro famiglie, scatenando l’invidia degli altri calciatori che invece avevano lasciato in patria i loro affetti ed erano soggetti al coprifuoco notturno.

Gli ottavi di finale 

Agli ottavi di finale il Senegal trovò un’altra squadra del Nord Europa, la Svezia di Larsson, squadra solida e battagliera uscita indenne dal girone della morte composto da Nigeria, Inghilterra ed Argentina. Dopo 11’ Larsson complice un’uscita a farfalle di Tony Sylva, il portiere del Senegal, portò in vantaggio gli svedesi. Ma i senegalesi reagirono subito portandosi sull’1 a 1 con un gol favoloso di Henry Camara. Gli svedesi si buttarono furiosi in attacco cercando in ogni modo di fare gol, ma Sylva parò l’impossibile come a voler chiedere scusa per l’errore sul vantaggio svedese. Grazie alle parate del portiere africano la partita andò ai supplementari. I supplementari all’epoca si basavano sulla crudele regola del Golden Gol, una sadica tortura come si faceva da bambini: chi segna questo vince. Dopo cinque minuti dall’inizio dei supplementari la sorte sembrò voler regalare i quarti agli svedesi: Anders Svensson ricevette palla al centro dell’area, si girò e scaricò un destro terrificante contro la porta senegalese. Chissà forse fu davvero il Marabut a bordo campo a soffiare su quel pallone, forse le divinità del Pantheon Wolof decisero di intercedere per i loro figli, fatto sta che il pallone si schiantò contro il palo alla destra dell’immobile Sylva. Scampato il pericolo, il Senegal cominciò ad affacciarsi con più convinzione nella metà campo avversaria. Al 104’ Camara riuscì a segnare la rete definitiva: fu un’esplosione di gioia come di rado si vide sui campi di calcio. La prima squadra africana ad arrivare ai quarti di finale di un Mondiale, si trovò per i quarti di finale un’altra grande sorpresa di questa manifestazione: la Turchia allenata dall’ex portiere turco Şenol Güneş.

I quarti di finale

Il 22 giugno del 2002 si trovarono in campo le due rivelazioni del Mondiale ed entrambe si giocarono la possibilità di entrare nella storia. La squadra allenata da Şenol Güneş fu probabilmente la miglior nazionale turca mai vista: con in porta un matto come Rustu, in difesa Okan Buruk, a centrocampo Emre e Hasan Şaş e in attacco Hakan Şukur, insomma uno squadrone. Dopo 19 minuti dall’inizio del primo tempo Camara segnò un bellissimo gol, ma una bandierina impertinente annullò la segnatura e stoppò anche la pratica per far diventare l’attaccante Imperatore Supremo del Senegal. La partita fu una vera battaglia, fallosa e sporca come solo una partita dei Mondiali sa essere. Si arrivò alla fine dei 90’ con il risultato inchiodato sullo 0 a 0, si andò ai supplementari con la solita regola del Golden Gol. La squadra di Metsu per la prima volta dall’inizio dell’avventura cominciò a sentire la fatica nelle gambe, aveva trovato una squadra ordinata in campo e molto tecnica che calcio ne masticava parecchio. Passarono solo 4’ dall’inizio del primo tempo dell’extra time e Umit Davala mise in area un bel cross. Fu un attimo, una razione di secondo che decise tutto. Forse il Marabut a bordo campo si appisolò per un momento, visto che Ilhan Mansiz, il bomber di scorta della Turchia, con una girata bellissima fulminò il povero Sylva. Il crudele Golden Gol, la Sudden Death (morte improvvisa) come la chiamano gli inglesi piombò su Nagoi, facendo piangere i giocatori di Metsu.

La fine del grande Senegal

Il Senegal ricevette un’accoglienza trionfale al ritorno a Dakar ma Metsu, che aveva già annunciato il comprensibile addio alla Nazionale, venne circondato dalle prime ostilità. Con il passare dei giorni, per le strade della capitale comparirono scritte anonime che cominciarono a porre domande scomode, al quale solo in Mister avrebbe potuto rispondere. Metsu venne accusato di aver lasciato che fossero i senatori a scegliere nel momento decisivo del Mondiale e forse l’opinione pubblica senegalese nascose in questi interrogativi il malanimo per la solita storia dell’Uomo Bianco che sfrutta le risorse dell’Africa per interessi personali. E in effetti sembrò proprio il finale anche di questa storia: Metsu accettò un’offerta esorbitante dall’Al-Ain, negli Emirati Arabi e il gruppo si sfaldò alla velocità della luce e senza alcun preavviso, come se quel golden gol subito fosse diventato regola di vita. Tra l’altro il povero Metsu morì nell’ottobre del 2013 a causa di un cancro, lasciando i suoi ragazzi sgomenti. Il Senegal mancò addirittura la qualificazione a Germania 2006, Mondiale che vide quattro africane su cinque al loro esordio assoluto: il Ghana, la Costa d’Avorio, il Togo e l’Angola. Per i “Leoni” la seconda chance arrivò soltanto nel 2018, guidati da Aliou Cissé, il capitano e centrale difensivo del Mondiale Nippo-Coreano. Anche questa volta il Senegal lasciò la competizione al primo turno, malgrado avesse un organico di tutto rispetto, su cui più di tutti spiccava l’attaccante del Liverpool Sadio Mané. Forse ora la nazionale senegalese sta subendo un naturale assestamentoche capita a tutte le squadre di calcio, ma il ricordo di quell’estate, di quella bellissima squadra che ha fatto piangere Francia, Uruguay e Sveziafece dimenticare a noi italiani il nome di Byron Moreno e soprattutto ci fece credere che il calcio a volte può essere preso alla leggera, ridendo e ballando, così come viene.

Una Riflessione: perché nessun Paese africano a mai vinto un Mondiale?

Chi vi scrive è stato da sempre un estimatore delle nazionali africane, squadre forti con giocatori validissimi ma che non arrivano mai oltre i quarti nella manifestazione iridata. Il Senegal del 2002, il Camerun del 1990, il Ghana del 2010 sono tutte squadre fantastiche, durissime da affrontare e in grado di competere con tutte: perché allora non arrivano mai al traguardo? Ragionando con amici appassionati di calcio e accaniti Fantacalcisti, sono giunto ad individuare due ragioni fondamentali sul perché il calcio del Continente Nero non abbia ancora fatto il salto di qualità. La prima ragione credo si possa rintracciare nel fatto che molti giocatori di origine africana finiscano per giocare per la nazione che li “accoglie” e non per la madrepatria. Questo ha finito per indebolire di molto le squadre africane, che hanno addirittura accusato le nazioni europee di Post colonialismo sportivo. La seconda ragione è che il calcio africano si è affidato sempre a fantomatici Santoni delle panchine, uomini di calcio che avevano sì una grande conoscenza della materia pallonara, ma che hanno cercato di imporre modelli europei di calcio dove questo non era evidentemente possibile. Credo sia inutile cercare di trasformare giocatori dalla forza fisica straripante e dalla grande velocità di base in surrogati di Pirlo o Xavi. Non si può a mio avviso permettere che questi ragazzi vengano imbrigliati dal Guardiolismo, dal Tiki Taka ad ogni costo, ma bisognerebbe che queste nazionali lascino che il proprio calcio evolva, prendendo ciò che c’è di buono da tutte le scuole calcistiche ma evitando di snaturare le caratteristiche che rendevano il calcio africano bello ed imprevedibile, scanzonato e felice. Il calcio africano piace perché il calcio è gioia, divertimento, risate ed un pizzico di follia, la stessa che convinse Metsu e i suoi ragazzi di essere forti, più forti anche della Francia e dell’Uruguay, che ancora ricordano quel francese dalla faccia simpatica e dal cuore africano.

Giovanni Trotta