La giustizia dei Gacaca

Dopo pochi mesi dalla fine del genocidio le carceri ruandesi cominciarono a riempirsi di centinaia di migliaia di assassini, violentatori e ladri. André Sibomana, un sacerdote ruandese che salvò tantissime persone durante il genocidio, ebbe occasione di visitare il carcere di Kagbay. Questa è la sua testimonianza che ci fa capire in che situazione si trovavano le carceri ruandesi subito dopo la strage: “Al primo strato c’erano i morti, al secondo vi erano invece i moribondi. Questi aspettavano la loro fine con grande dignità e senza dire una parola, alcuni stavano già cominciando a decomporsi malgrado fossero ancora in vita. Al terzo strato vi erano i vivi che avevano i piedi marci a causa dell’umidità, uno stava addirittura in piedi sulle tibie visto che i suoi piedi si erano completamente putrefatti”. Il governo provvisorio del Fronte capì subito che non avrebbe potuto giudicare tutte queste persone, si profilarono quindi due possibilità per il Paese: o tutti innocenti o tutti colpevoli, lasciare libere migliaia di assassini oppure stipare le prigioni di detenuti, chi sarà fortunato avrà un processo chi no morirà in prigione. Fu proprio in questo momento di grande incertezza che si decise di seguire un’altra strada, una strada originariamente ruandese. Dopo il genocidio, la vita doveva andare avanti e questa molte volte mette di fronte a discussioni e litigi che, per essere risolti, hanno bisogno di un giudice. Ma in Rwanda non c’erano giudici, non c’erano avvocati, non c’era niente. Così, già dal 1996, le persone cominciano ad arrangiarsi e a discutere dei loro litigi insieme. Si incontrano in un prato e fanno una sorta di processo pubblico, dove ognuno, con calma e senza lasciarsi prendere dall’ira, dice le sue ragioni e i saggi prendono una decisione. Fanno quello che in Kinyarwanda viene chiamato Gacaca, cioè una sorta di tribunale tradizionale.  I tribunali Gacaca nella loro forma tradizionale non erano uno strumento di punizione, quanto un modo per mantenere la pace sociale e per risolvere pacificamente le dispute. Il termine Gacaca vuol dire “prato” e deriva dal fatto che questi processi si tenevano a cielo aperto su dei verdissimi prati. I Gacaca erano di solito sottoposti alla sorveglianza del più anziano (che come in molte civiltà africane era un punto di riferimento non solo per la sua saggezza, ma anche per risolvere piccoli e grandi conflitti) e ne facevano parte tutte le famiglie interessate dal processo. Alla fine dei dibattiti veniva spesso organizzato un pasto da consumarsi in comunità come simbolo di riconciliazione e di scusa. Come pene gli imputati potevano vedersi infliggere lavori di interesse comune e risarcimenti, che potevano essere pagati con derrate alimentari o a volte con delle mucche.Il 26 gennaio 2001 una legge trasforma un’istituzione antica e tradizionale in un’istituzione della giustizia nazionale. Tra il 4 febbraio e il 14 marzo del 2002, 781 magistrati e studenti di legge degli ultimi anni di corso vengono formati per operare come istruttori. A loro volta questi si recano in ogni parte del Rwanda per poter istruire 254.152 ruandesi, scelti come giudici e come avvocati nei Gacaca. Questi il 6 aprile 2002, ottava ricorrenza dello scoppio della carneficina, iniziano un corso di sei settimane. A gruppi di 80-90 persone seguono lezioni su principi giuridici di base, nozioni sulla conduzione di un gruppo e su come fronteggiare le difficoltà che possono scaturire da testimonianze troppo crude. Viene costituito una sorta di esercito di giudici dilettanti, dove possiamo trovare il professore in legge ma anche l’analfabeta, che non sa né leggere e né scrivere ma che si è sempre distinto come persona integra moralmente e corretta.

Una missione impossibile per un povero Paese

I detenuti vengono divisi in 4 categorie: la prima è formata da tutti quei detenuti riconosciuti come pianificatori del genocidio, tutti coloro che hanno diretto cellule di miliziani, coloro che hanno compiuto stragi e coloro che hanno pianificato stupri di massa o li hanno materialmente compiuti. Alla seconda categoria appartengono tutti coloro che si sono macchiati di omicidi, omicidi colposi e lesioni gravi. Alla terza appartengono tutti quei detenuti che si sono macchiati del reato di lesioni personali e alla quarta tutti coloro che hanno compiuto delitti patrimoniali. La prima categoria rimane di competenza del Tribunale Internazionale di Arusha o del tribunale ordinario rwandese, mentre le altre tre categorie diventano di competenza dei Gacaca. Il lavoro dei tribunali Gacaca viene organizzato in diverse tappe: la prima fase consiste nella raccolta delle informazioni e della ricostruzione dei fatti del 1994, attraverso l’aiuto e le testimonianze di tutte le famiglie che compongono la comunità si cerca di capire chi viveva in quel posto nell’aprile del 1994, di raccogliere dati sulle vittime e di fare un inventario dei danni provocati. La seconda fase serve ai giudici dei Gacaca a classificare gli imputati sulla base delle categorie previste, attribuendo infine i diversi casi alle Corti competenti. In ultimo si procede al processo vero e proprio. I sospettati si presentano davanti alla comunità, è prevista una procedura di confessione, ammissione di colpevolezza e richiesta di perdono: in caso di confessioni provate e spontanee sono previsti robusti sconti di pena, sono previste invece sanzioni nel caso di false testimonianze, minacce e verso chi non si presenta e chi non testimonia. Durante il processo all’imputato viene chiesto di confermare la propria confessione e di dare spiegazione sui crimini che ha commesso. Infine la comunità viene invitata a partecipare, testimoniando a favore o contro l’imputato e ponendo le loro domande. I processi hanno durata variabile, possono durare giorni ma anche poche ore, le deliberazioni sono segrete e si possono concludere con l’assoluzione o con una sentenza di condanna, che può essere o di reclusione in carcere, lavori di pubblica utilità oppure semplicemente un risarcimento a favore dei sopravvissuti.Questi tribunali, così come sono concepiti, sembrano non avere ostacoli e sembrano destinati a funzionare senza intoppi, anche perché possono giudicare un numero tante volte superiore rispetto ai tribunali, sia quello di Arusha che quello ordinario. Eppure anche i Gacaca sembrano presentare delle difficoltà, infatti per i giudici che devono giudicare è molto difficile ricostruire il contesto nel quale si è consumato un dato crimine e talvolta è addirittura impossibile, soprattutto in quei villaggi dove non è rimasto vivo nessuno e dove si sono impiantate famiglie che sono ritornate nelle terre natie seguendo l’esercito del Fronte.

Un sistema aspramente criticato

Il sistema dei Gacaca è stato fortemente criticato dai puristi del diritto, ma questi si sono dimenticati di considerare una cosa molto semplice: i tribunali Gacaca fanno emergere un sacco di informazioni e permettono di giudicare moltissimi casi. La testimonianza di una sopravvissuta può essere molto utile per capire a cosa servono i Gacaca: “Io non cerco vendetta o giustizia, cerco solo i corpi di mia sorella Stephanie e dei suoi figli. Non vorrei andare lì ma mi hanno detto che nei Gacaca la gente confessa”. Un’altra testimonianza molto importante è quella di un’altra donna che ci spiega come funzionano i tribunali tradizionali: “L’individuo che hai di fronte ha fatto a pezzi la tua famiglia, ha partecipato ai massacri, ha visto la gente che massacrava i suoi vicini e non ha fatto niente, e la legge ti vieta di avere una qualche reazione emotiva nei suoi confronti. Hai una gran voglia di picchiarlo e la legge ti vieta persino di urlargli contro tutto il tuo odio”. Questi tribunali sono molti controversi eppure hanno il meritodi far emergere un mare di informazioni. Nella chiesa di Nyamata, l’8 aprile del 2004, ci sono una trentina di bare aperte che dovranno accogliere 30 tra uomini, donne e bambini che hanno trovato la morte in quella chiesa. Quella povera gente era lì da dieci anni e chissà quando sarebbero stati trovati se nessuno degli imputati nei Gacaca avesse rivelato l’esatta posizionedella fossa. Ma sul prato si fanno anche i nomi di complici, persone che hanno partecipato al genocidio e vengono rivelati anche dai sopravvissuti. Così i Gacaca che dovevano essere la soluzione per processare 100.000 persone che marcivano (letteralmente) in cella, a metà 2009 hanno analizzato oltre un milione e mezzo di casi. La domanda da farsi a questo punto è: sono tutti colpevoli? No, è impossibile, eppure la cifra non si discosta tanto da quella dei casi analizzati dai Gacaca, perché il genocidio nel Paese delle mille colline è stato un genocidio eseguito in maniera dettagliata e dalla maggioranza degli hutu e non con metodi scientifici come nella Shoah.I carcerati trasferiti ai tribunali tradizionali erano detenuti in condizione terribili, a cui non dovrebbe essere sottoposto neanche il peggior criminale. Vi è da dire però che neanche i tribunali sono esenti da critiche. Secondo l’associazione Human Watch Rights gli standard di questi processi non sono pienamente all’altezza di quelli internazionali. Gli imputati in genere non hanno diritto e nemmeno i mezzi per dotarsi di una difesa adeguata, le corti non sono indipendenti dal potere politico e le testimonianze non vengono vagliate come dovrebbero. Anche i sopravvissuti criticano le corti per la tendenza a liberare molti indiziati. Infatti molti scampati alle stragi vivranno come un trauma la liberazione nel 2005 di 30.000 indiziati di crimini connessi ai fatti del ’94. Esther Mujawayo, una delle fondatrici di Avega, associazione in difesa delle donne ruandesi, si lascia andare a quest’amara constatazione: “Non riuscivo a capire come questo tipo di giustizia potesse adattarsi ad un contesto come quello del genocidio. Agli occhi di un sopravvissuto nessuna giustizia può spiegare ciò che è successo, quanto è accaduto qui da noi è talmente folle che è impossibile credere che una qualunque legislazione possa infondervi un minimo di razionalità”. Eppure molti sopravvissuti riconoscono che l’unico modo per andare avanti è quello di ricostruire la giustizia e naturalmente, con essa, la verità.

La storia di Emmanuel ed Alice

Una testimonianza che parla di perdono e di riconoscimento della verità ci può aiutare a capire a cosa realmente servono i Gacaca, cioè ricostruire la verità ma anche e soprattutto ricostruire il tessuto sociale, totalmente disintegrato dai fatti del ’94. Alice Mukarurinda nel ’94 era una giovane mamma, sposata con un brav’uomo e con una bimba di 9 mesi, da cui non si separava mai per nulla al mondo. L’11 aprile del ’94 i soldati dell’esercito rwandese, coadiuvati da miliziani Interahamwe attaccano la grande chiesa di Nyamata, dove si erano rifugiati migliaia di tutsi. Alice, suo marito e sua figlia riescono a scappare prima che la chiesa venga avvolta dalle fiamme, ma non riesce ad aiutare né sua madre e neanche due sorelle che erano con lei. Si rifugia, ignorando le sorti del marito, tra le piante di fagioli, ma viene scoperta il 29 aprile. Gli Interahamwe le strappano la bimba dalle braccia e la tagliano in due con un solo colpo di machete, poi si accaniscono contro la mamma alla quale tagliano di netto una mano, le trapassano la spalla con una lancia e la colpiscono con una mazza chiodata sul viso. Dopo cinque giorni passati tra la vita e la morte viene trovata dal marito. “Dov’è la mia bambina?”, si chiede Alice, ma il marito le risponde “Dobbiamo andare a seppellirla”. Alice è stata aggredita da Emmanuel Ndayisaba, che prima del genocidio era un operaio metallurgico e cantava nel coro di una chiesa avventista. Durante quel terribile aprile Emmanuel viene reclutato dagli squadroni della morte e partecipa in maniera attiva ai massacri. Emmanuel ha ucciso in tutto 18 persone e l’ultima persona che ha tagliato con un machete è stata proprio Alice. Emmanuel nel 1996 viene arrestato insieme al padre ed è stato liberato nel 2003, grazie alla clemenza concessa a tutti coloro che hanno confessato. Il padre, che non ha collaborato con le autorità giudiziarie, è morto nel 2001 per una grave infezione. Emmanuel vede di nuovo Alice nel 2003, quando ha aderito alla fondazione Ukuri Kuganze (la verità prima di tutto), un’associazione che riunisce sopravvissuti ed autori del genocidio. Insieme hanno preso un pezzo di terra e lo stanno coltivando, hanno preso ad allevare insieme le vacche e a costruire case per gli orfani del genocidio. Alice non ricorda il viso di Emmanuel, ma lui ricorda benissimo il viso di Alice, solo che non sa che cosa dirle per poter chiedere scusa. Un giorno Emmanuel porta al campo birra di sorgo e patate dolci. Cuoce la patata più grande, la porta ad Alice e cominciano a parlare. D’un tratto Emmanuel si butta in ginocchio e comincia a chiederle perdono. Alice sorpresa gli chiede “Perché mi stai chiedendo scusa?” Emmanuel scoppia in lacrime e le dice “Sono io che ti ho tagliato la mano, sono io che ti ho quasi ucciso!”. Alice si allontana precipitosamente verso casa e racconta tutto al marito. Questi, dopo averla rimproverato per aver aderito ad un’associazione che raduna assassini e scampati, la fulmina con queste parole: “Hai detto che avresti perdonato il tuo carnefice se lo avessi trovato, che cosa stai aspettando?”. Alice è riuscita a perdonare il suo aggressore e ha anche cercato di evitare una condanna pesante per Emmanuel, quando questi nel 2004 è comparso davanti ai Gacaca. Alice ed Emmanuel ora sono grandi amici, condividono il cibo, il campo di lavoro e gli animali da allevare. Questo ci dimostra che il perdono incondizionato esiste e che il male non può mai vincere sul bene.

Un bilancio del sistema Gacaca

Il 18 giugno del 2012, dopo dieci anni di attività, le corti Gacaca hanno finito la loro missione con un bilancio possiamo dire molto positivo. Nello stesso giorno il ministro della giustizia Tharcisse Karugarama ha consegnato nelle mani del presidente Paul Kagame il rapporto finale sull’operato delle corti Gacaca in una grande cerimonia che vedeva presenti rappresentanti di varie nazioni e l’associazione italiana Nessuno Tocchi Caino. La scelta di dar vita ad una giustizia non forcaiola e la rinuncia alla pena di morte è un atto dal grande valore simbolico, che testimonia come il Paese delle mille colline abbia voluto rompere questa catena d’odio e di vendetta e superare di conseguenza la logica aberrante del machete e della forca. Il bilancio dei Gacaca in dieci anni è senza precedenti. In dieci anni ha trattato un milione e mezzo di casi, la maggioranza dei quali riguarda reati contro la proprietà e circa 640.000 casi di omicidi e mutilazioni commessi nei terribili cento giorni del genocidio. La quasi totalità degli indagati è stata assolta oppure condannata a pene alternative alla detenzione e anche le Nazioni Unite, malgrado l’iniziale scetticismo, ha riconosciuto che i Gacaca non sono stati un esempio di giustizia forcaiola e sommaria, come avevano invece dichiarato alcuni puristi del diritto.“Il sistema Gacaca ha avuto le sue imperfezioni sicuramente, ma i critici non hanno mai offerto nessun tipo di soluzione alternativa che potessero fornire i risultati di cui avevamo bisogno”, ha dichiarato il presidente del Rwanda Kagame alla cerimonia di chiusura delle corti Gacaca. L’operato dei tribunali tradizionali è incomparabilmente superiore all’operato del Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda, che in 17 anni di attività ha trattato una novantina di casi al costo di 1 miliardo e 700 milioni di dollari, mentre i Gacaca, con oltre un milione e mezzo di casi affrontati in dieci anni di attività, sono costati poco più di 48 milioni di dollari. Il sistema Gacaca ha sfidato tutti gli abitanti del Rwanda a praticare introspezione e ricerca interiore, il che ha portato a dire la verità e alla giustizia, alla guarigione e alla riconciliazione nel Paese. Ma a fronte di queste considerazioni che sono sicuramente positive, bisogna anche parlare di quelle che sono le critiche che sono state rivolte a tale sistema. Oltre al loro controverso ruolo nell’effettiva riconciliazione del popolo ruandese, viene criticato il mancato rispetto dei diritti umani e degli standard minimi di legalità processuali. Diverse organizzazioni internazionali continuano ad accusare il governo di Kigali di incarcerazioni arbitrarie e detenzioni illegittime, la mancanza di imparzialità delle corti, un’attenzione esclusiva verso i criminali che si sono macchiati di crimini durante il genocidio, facendo passare tutti gli hutu come criminali e i tutsi come vittime, ignorando deliberatamente gli abusi commessi dal RPF e mettendo in risalto un clima politico molto teso e liberticida che influenza anche la giustizia. I Gacaca sono stati criticati fin da subito per la mancanza di competenze giuridiche adeguate dei giudici, che molto spesso si è fusa con l’analfabetismo, cosa che rende molto più facile la parzialità e la strumentalizzazione. Inoltre è stato criticato il mancato rispetto degli standard giuridici minimi, come l’assenza di avvocati difensori o di procuratori veri e propri; la violazione del principio di presunzione di innocenza, con imputati che vengono processati dopo anni di detenzione; un controllo inadeguato delle prove e delle testimonianze, oltre naturalmente ad una cronica mancanza di uniformità nelle procedure.Altre critiche che hanno investito il Gacaca sono quelle relative alla sicurezza di chi testimonia e di chi partecipa ai tribunali tradizionali, soprattutto per chi testimonia a favore di qualcuno accusato di genocidio, un reato che è sempre stato fortemente politicizzato. Anche i lavori di pubblica utilità sono stati criticati aspramente dai difensori dei diritti dell’uomo: secondo questi attivisti tali lavori si sarebbero trasformati in una sorta di lavoro forzato che non finisce quando la pena viene scontata. Inoltre le vittime del genocidio si sono mostrate critiche con le corti Gacaca, infatti molti di loro lamentano il mancato pagamento delle indennità e delle riparazioni promesse.La giustizia ruandese ha prodotto un grande sforzo ed il sistema Gacaca, per quanto sia stata un’idea rivoluzionaria che ha snellito sensibilmente la giustizia, non ha dato i risultati previsti. La logica conseguenza è una progressiva disillusione da parte della comunità ruandese in merito al Gacaca, assimilato sempre di più ad uno strumento punitivo diretto con il pugno di ferro dallo stato, piuttosto che un modo per portare la pace e la riconciliazione in un Paese che in cento giorni ha visto di cosa può essere capace la natura umana.Chiusa l’esperienza delle corti Gacaca, in Rwanda ci sono ancora 30.000 detenuti per reati connessi al genocidio, ma non è raro vedere per Kigali uomini in attesa di giudizio che indossano un uniforme rosa, detenuti condannati in via definitiva che vestono di arancione e condannati a lavori di pubblico interesse con la tuta blu, tutti intenti a lavorare e a cercare di ricostruire il paese dopo che per cento giorni lo hanno rivoltato come un calzino. Gli archivi dei tribunali Gacaca sono un patrimonio prezioso che deve essere tramandato e reso fruibile a tutti, perché sono zeppi di storie che raccontano di un grande dolore, ma che riescono a raccontare anche storie di riconciliazione e di amicizia come quella di Emmanuel ed Alice.I tribunali Gacaca non sono stati solo un modo per rendere giustizia in tempi ragionevoli alle vittime di una violenza infinita e tremenda. Sono stati anche la prova che la verità ha una grande forza liberatoria, una forza sulla quale il Paese delle mille colline sta cercando di costruire il suo futuro, un futuro si spera non più avvelenato dalla dicotomia mortale Hutu-Tutsi.

Giovanni Trotta