Ognuno sente a modo suo le bellezze del mondo. Chi troppo e chi
troppo poco. Entrambi sono figli della Vita. Si attende che dalla
loro unione nasca un discendente più equilibrato.
(parlano Apatèo e Patèma)1

APATEO Che bellezza!
PATEMA Di cosa parli?
APATEO Di questo!
PATEMA Non vedo nulla.
APATEO Perché non c’è nulla.
PATEMA E allora come posso vederlo?
APATEO Semplice: non puoi.
PATEMA Non capisco.

APATEO Non c’è bisogno di capire.
PATEMA Io ne ho bisogno.
APATEO E allora sei destinato alla perpetua angoscia.
PATEMA E tu ad aride pianure.
APATEO Cos’hai contro le aride pianure?
PATEMA Sono così… piatte. Non c’è nulla.
APATEO Ecco perché sono così meravigliose. Non c’è nulla,
proprio come nel cielo estivo.
PATEMA Non so come tu faccia…
APATEO A fare cosa?
PATEMA A startene lì impalato, senza far nulla, dalla mattina alla
sera!
APATEO E cosa c’è di tanto sbagliato?
PATEMA Forse nulla. Ma vivi senza emozioni, come in un’eterna
attesa. L’attesa di qualcosa che non arriverà mai.
APATEO Beh questo è il più bel dono che gli dèi ci hanno fatto.
Oh, l’attesa…
PATEMA Tu sei pazzo!
APATEO No, non posso esserlo.
PATEMA Sì che puoi esserlo, anche tu, anche se non provi
null’altro che il piacere del nulla. L’attesa… L’attesa è il più grande
male che gli dèi abbiano inviato su questa terra.
APATEO Oh, quanto sei tragico…

PATEMA Sì, sì, certo. La conosci la storia della Tela del Tempo?
APATEO Illuminami! Ma fai presto, tutto questo daffare
m’inquieta.
PATEMA Che ci fosse qualcosa che ti inquieti!
APATEO Parla.
PATEMA Ebbene. Era l’inizio dei tempi e gli dèi regnavano nel
mondo, ognuno con le sue rispettive attribuzioni, e osservavano
dall’alto tutto ciò che avveniva sulla Terra. E nella loro oziosa
eternità, si accorsero che qualcuno era felice, più felice di loro: gli
innamorati. Così un giorno, gli dèi, invidiosi degli uomini,
stralciarono dalla Tela del Tempo un velo, un frammento di
eternità, e lo offrirono agli amanti, coloro che tra i mortali sono più
impazienti. Questi in un primo momento credettero che fosse un
dono, convinti che avrebbe conferito l’immortalità al loro amore.
Ma l’inganno fu presto scoperto. Quel velo, più invisibile dell’aria,
più forte del bronzo celeste, si frappose tra di loro, e così nacque
l’Attesa, flagello dei cuori distanti, tormento divino per le anime
viventi.
APATEO Ah, questa storia… ma quella che racconti è solo una
versione, quella che piace di più a quelli come te.
PATEMA A quelli come me? Di cosa parli?
APATEO Sì, quelli come te, quelli che non riescono a star seduti in
riva al mare a guardare il nulla senza che li colga un pensiero.
PATEMA E tu non pensi mai, invece!
APATEO Oh questo non è vero. Io penso, non lo vedi, ma penso.
Soltanto perché sono sereno non vuol dire che io non abbia i miei
pensieri, le mie idee. Semplicemente queste idee non mi dànno
noia. Ritornando alla storia… L’Attesa fu un regalo degli dèi per
gli amanti, affinché capissero il valore del vero dono che il cielo ha
fatto a questa terra: l’amore.
PATEMA Ma che ne sai dell’amore, tu che non hai il benché
minimo sussulto? Il tuo cuore ha mai avuto un battito fuori posto?
APATEO Forse hai ragione, non so cos’è davvero l’amore né lo
saprò mai. Ma so cos’è l’Attesa: la necessaria distanza che permette
a un desiderio di esistere. Tra il desiderante e il desiderato c’è,
soprattutto, la distanza del Tempo…
PATEMA Tu, Apateo, mi parli di desiderio?
APATEO Sì, ne parlo, perché forse solo in questa accezione puoi
capire il valore dell’Attesa. Quanto a me, le cose sono ben diverse:
il piacere di una vita lenta, l’assaporare lo scorrere degli istanti, il
vedere la meraviglia in ogni cosa, soprattutto in quelle più
scontate…
PATEMA E nel mentre? Che fare?
APATEO Nel mentre? Mio caro Patema, il “mentre” è l’Attesa
stessa. Guarda che bel cielo, azzurro in ogni dove, senza alcunché
di inaspettato o triste come la pioggia.
PATEMA La pioggia, dici, è triste. Ma un sole sempre presente,
sempre uguale, in un cielo piatto e senza la più piccola increspatura
di nuvole sarebbe allegria? Non è, piuttosto, apatia?

Francesco Moro



  1. I protagonisti di questo dialogo si chiamano Apatèo e Patèma. Entrambi hanno
    un nome parlante che deriva da una comune radice, πάθος (pàthos), «passione»,
    «sofferenza», «emozione forte». Nel primo nome, la “a” iniziale (alfa in greco)
    priva la radice del suo significato e si ottiene quello di «assenza di emozioni» (in
    italiano abbiamo “apatia”). Il secondo nome abbraccia invece pienamente la
    radice, assumendo il significato di «sofferenza acuta» e, in usi estensivi e
    iperbolici, «ansia». Un dialogo tra chi non sente nulla (forse) e chi sente troppo.
    ↩︎